
La riserva di caccia
Nel Settecento Vivara divenne riserva di caccia borbonica, parte di un sistema territoriale simbolico e strategico. L’isola fu modificata per ospitare fauna venatoria e strutture funzionali alla corte, alterando habitat e biodiversità. Le introduzioni di specie e l’uso elitario del paesaggio riflettono forme precoci di gestione ambientale, oggi leggibili come dinamiche di antropizzazione profonda, in cui l’uomo agisce da vettore ecologico. Vivara ne è testimonianza viva.
I Luoghi del Re
"Procida fu il primo “Sito Reale” dei Borbone. Divenuta riserva di caccia già nel 1735, l’isola fu definitivamente acquisita dalla Corona nel 1744, dopo l’esproprio ai d’Avalos per le loro simpatie filoaustriache. Il Palazzo d’Avalos fu trasformato dalla “Casa Reale” a partire dal 1738 su progetto dell’ingegnere Agostino Caputo, segnando l’inizio di una nuova stagione politica e simbolica: l’isola non era più solo luogo periferico, ma spazio organizzato in funzione di svago, potere e rappresentanza.
Il re Carlo, appassionato di caccia, integrò Procida in un sistema venatorio più ampio che includeva anche le riserve degli Astroni, Agnano, Licola e il Fusaro. Le battute si spostavano ciclicamente, da Caserta a Vivara, passando per i laghi flegrei e la Terra di Lavoro. A Vivara, in particolare, furono ristrutturati edifici preesistenti (come la Torre Bovino e Guevara) per ospitare il sovrano e la corte durante le stagioni di caccia.
La presenza borbonica trasformò il paesaggio: ampi terreni agricoli furono destinati alla caccia, con divieti di coltivazione, di uso delle armi e persino del possesso di gatti, ritenuti dannosi per la fauna da ripopolare. Nacquero le “caccette”, piccoli padiglioni di caccia tra Solchiaro, Pizzaco, Centane e la Chiaiolella, esempi unici di architettura tra tardobarocco e neoclassicismo, nate spesso spontaneamente e caratterizzate da dettagli propri dell’edilizia popolare locale: loggiati, cupole, scale “a collo di giraffa”. Si configurano come una rara forma di “architettura senza architetti”, frutto della sapienza costruttiva delle maestranze isolane. Inserite in un contesto paesaggistico di straordinaria bellezza, rappresentano un patrimonio architettonico e urbano di grande pregio, ampiamente documentato anche nelle rappresentazioni iconografiche del tempo. Questi edifici – come la Villa Lavina, il palazzo di Guarracino o il casino De Jorio – si integrano nel tessuto urbano che, tra Settecento e Ottocento, si sviluppa lungo l’attuale via Vittorio Emanuele II, collegando Marina Grande alla Chiaiolella (punto di attacco privilegiato verso Vivara). La strada e le sue diramazioni riflettono una pianificazione strategica e simbolica, che trasforma l’intera isola in un paesaggio controllato e funzionale alla corte.
Procida, quindi, non fu un’isola “a parte”, ma un nodo di una rete di siti reali pensati per rappresentare la forza del sovrano attraverso la gestione del territorio. Oggi, le architetture e il disegno spaziale dell’isola costituiscono una rara testimonianza materiale di questa “natura amministrata”: un paesaggio costruito per dominare, produrre e incantare, dove il potere si esprimeva anche attraverso la forma stessa dello spazio."
La prima Riserva di Caccia
Vivara fu la prima riserva di caccia del Regno di Napoli, già destinata a tale uso in epoca romana e successivamente nel Seicento, quando vi si cacciavano animali introdotti dai d’Avalos. Il Duca di Bovino, Giovanni Guevara, ne fece nel 1681 un luogo di caccia privilegiato, facendo costruire sul punto più alto dell’isola una villa e gli edifici colonici annessi.
Durante il regno di Carlo III di Borbone, nella seconda metà del Settecento, l’isola venne ufficialmente integrata nel sistema delle riserve reali. L’ambiente isolato e la ricchezza di habitat naturali ne facevano un luogo ideale per la caccia d’élite. Vennero introdotti conigli selvatici, fagiani e altre specie venatorie, e il paesaggio modificato.
A questo periodo risale anche la costruzione della Casina del Caporale: fu eretta con l’autorizzazione del re da un caporale della guardia del corpo di Carlo III, al termine del suo servizio. La scala d’accesso attuale, che un tempo era un canalone, fu invece realizzata negli anni ’30 in occasione della visita della principessa Maria Josè.
Tra gli altri edifici legati all’uso venatorio e di caccia figurano la Vaccheria, il Pulpito, la Casa Padronale e la Casa Colonica. L’architettura si fonde in un paesaggio in cui la natura da selvaggia diventa “amministrata” per rispondere alle logiche di potere aristocratico. Questi siti non erano indipendenti, ma formavano un sistema integrato in cui il paesaggio insulare veniva organizzato secondo un piano di controllo ambientale ed estetico preciso, con precise finalità politiche oltre che venatorie: era uno strumento di rappresentazione del potere e di gestione delle risorse.
Quando l’uomo riscrive la natura
Nel Periodo Borbonico vennero introdotte specie alloctone come conigli selvatici, fagiani e caprioli; la vegetazione fu modificata per migliorare l’accessibilità e la visibilità della selvaggina. Questi interventi alterarono in modo significativo la struttura ecologica originaria, riducendo habitat come la gariga mediterranea con superfici più funzionali alla caccia. È plausibile che i conigli selvatici presenti sull’isola fino a tempi recenti discendessero dalle popolazioni introdotte in epoca borbonica a scopo venatorio, data l’assenza di altre introduzioni note e l’isolamento geografico dell’isola.
È significativo che, pur muovendosi all’interno di una logica di privilegio e dominio, i Borbone avessero riconosciuto — e regolato con rigore monarchico — elementi che oggi validiamo con evidenze scientifiche: basti pensare al divieto di possedere gatti, imposto per tutelare la fauna cacciabile. Un’intuizione che oggi trova conferma nei dati sull’impatto ecologico dei gatti domestici sulla fauna selvatica. In questo senso, pur agendo secondo finalità simboliche ed elitarie, la corte borbonica dimostrò una certa capacità di osservazione — interessata ma efficace — degli equilibri naturali.
L’interazione tra uomo e ambiente, anche quando dettata da motivazioni antropocentriche, contribuiva a definire nuovi assetti ecologici, non sempre stabili o prevedibili, ma esito di una costante negoziazione tra pressione antropica e risposta ambientale. Questa dinamica ricalca in modo sorprendente i meccanismi naturali di competizione e selezione: l’uomo agiva da super-predatore, regolando gli equilibri trofici secondo un proprio tornaconto. La differenza era l’intenzionalità e la scala d’intervento, ma la logica — adattamento del contesto per massimizzare il rendimento — resta biologicamente coerente. Così, anche in un contesto elitario e ricreativo, l’essere umano si comportava come qualsiasi altra specie che, potendone modificare l’ambiente, riduce la competizione e aumenta la disponibilità di risorse.
La carne degli animali introdotti, infatti, non era solo oggetto di sport, ma veniva anche consumata: la caccia, pur simbolo di potere, manteneva una componente materiale di approvvigionamento alimentare, con funzione sociale e politica. Alla luce delle conoscenze ecologiche e delle derive storiche attuali, è possibile leggere quegli stessi interventi anche come primi segni di antropizzazione profonda: l’uomo, agendo spesso per scopi ricreativi, simbolici o produttivi, ha svolto nel tempo il ruolo di vettore ecologico, introducendo specie aliene che, in certi contesti, si sono trasformate in elementi destabilizzanti per gli equilibri naturali. Questo fenomeno, oggi tra le principali minacce alla biodiversità, si manifesta con particolare forza negli ecosistemi insulari, dove l’introduzione anche di una sola specie non autoctona può alterare profondamente catene trofiche e assetti ecologici. Riconoscere tale dinamica significa comprendere che l’impatto umano sugli ecosistemi non è solo diretto, ma anche mediato da altre forme di pressione biologica e geografica, alcune volte irreversibili."